(IL MESSAGGERO) Il Caso Wabara è la punta di un iceberg. La denuncia del Presidente di Equality


L’intolleranza è il vero nemico, i club coinvolti” di CARLO SANTI

ROMA, 9 Aprile 2011 – L’ennesimo episodio di razzismo nello sport italiano viene censurato da tutti ma per trovare una soluzione si rimane, come sempre, ai propositi e alle parole. Quello di Abiola Wabara, la cestista azzurra della Geas di Sesto San Giovanni insultata e colpita da sputi durante la partita di playoff della serie A con la Comense mercoledì sera è l’ennesimo caso: la situazione su questo fronte sta diventando pericolosa. «Dal nostro punto di vista nel Paese c’è troppa intolleranza e violenza e il clima generale non aiuta». A spiegarlo è Aurelio Mancuso, il presidente di Equality Italia, associazione che si occupa dei diritti civili in ogni ambito ed è al servizio delle persone con i suoi volontari. Mancuso dal suo osservatorio, dal quale scruta mille storie e non solo di sport, guarda oltre. «Esistono, questi fenomeni di razzismo in tanti posti  ma nello sport non si fa altro che piangere senza fare nulla di concreto». Ci sarebbero, per stadi e palazzetti, regole da applicare rigidamente ma, aggiunge Mancuso, «nella varie Federazioni non accade niente». Si cerca sempre la soluzione di comodo, la tesi abusata che a creare disordini sono piccoli gruppi. «Si pensa a restringere il problema anche se, a nostro modo di vedere, coinvolte sono anche le società. Dovrebbero essere,  invece, ferme e applicare le regole». Cercare un motivo per allontanare le responsabilità, un alibi per essere in pace con se stessi. E’ questo lo sport preferito da molti dirigenti. «Poteva avere un comportamento diverso e non scendere al livello di chi l’ha offesa», ha fatto sapere ad esempio Antonio Pennestri, presidente della Comense riferendosi ad Abiola Wabara prima di prodigarsi in un comunicato redatto insieme alla Geas per combattere il razzismo. Aurelio Mancuso sottolinea l’aspetto culturale della vicenda spiegando che altrove  – Francia, Inghilterra, Germania – si fanno campagne tutto l’anno. «C’è una volontà per isolare pezzi di tifoseria estremista. Tutto questo in Italia non accade perché molti dirigenti sportivi non hanno voglia di operare alcun cambiamento. Questo sistema fa comodo a molti». Monitorare costantemente la situazione anche perché, come Mancuso spiega,  «quotidianamente mi raccontano episodi a sfondo razzista». Uno di questi è capitato a Tivoli a fine 2009, anche questa volta nel basket, ma giovanile. Un padre non accettava che l’allenatore del club non facesse giocare il figlio tredicenne. Roberto Giammò, il tecnico di colore originario della Somalia, è stato prima insultato («scimmione, negro di m…, torna in Africa») e poi colpito dal genitore. E’ scattata una denuncia e l’aggressore è stato citato in giudizio dal tribunale di Tivoli: il processo è fissato tra un mese. Il mondo giovanile è purtroppo ricco di casi anomali. «Già nella categoria pulcini del calcio manca la cultura. Ci sono molti genitori che scaricano la violenza aizzando i bambini. Gli dicono di dare calci all’avversario e chi ha il dovere di promuovere lo sport non fa niente» Mancuso, che controlla la rete, Facebook e altro, ha trovato un sito  particolare, «siamo noi i veri crociati», dove più di mille persone postavano battute e foto contro down, emigranti e neri. «In un giorno la polizia postale ha chiuso il sito», ha spiegato il presidente di Equality  Italia. Abiola Wabara ha quasi trent’anni ed è nata a Parma da genitori nigeriani. Nella sua carriera cestistica ha avuto molte esperienze: ha giocato negli Usa alla Baylor University, è stata in Israele dove ha studiato arte e l’ebraico, in Ungheria e in Spagna prima di tornare, nel 2009, in Italia alla Geas. E’ lei l’ultima vittima del razzismo nello sport, lo stesso che qualche giorno fa, in Russia, ha visto il calciatore Roberto Carlos protagonista suo malgrado quando un tifoso dello Zenit è arrivato a offrigli provocatoriamente una banana. «In Italia non trovo nessuno – ha spiegato ancora Mancuso – che abbia il coraggio di dire che il mondo dello sport non fa nulla».

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